martedì 20 gennaio 2009

Come stai? Come d'autunno gli alberi le foglie


Trovo che la cultura occidentale renda la gente oltremodo autolesionista. Si parla con una certa commiserazione dei kamikaze ma non ci si rende conto di quanto noi ci logoriamo rendendoci morti prima ancora di morire, tutto per essere fedeli a principi culturali annichilenti, cosa che non è affatto migliore dell'essere fedeli in modo così estremo ad una religione. Sono entrambe strade sbagliate che portano alla distruzione dell'io.

Nel nostro caso, si parte già dalla quotidianità con il logorio. Quando si incontra qualcuno che si conosce ma con cui non si ha molta confidenza e scatta il: "Come stai?" non perché alla persona importi seriamente, ma perché bisogna per forza dire qualcosa. Ma in realtà non si ha affatto voglia di parlare e allora si spera che l'altra persona risponda "Bene e tu?" per non dover fare altre domande. Già, perché se stai bene nessuno ti chiede: "Perché stai bene?", come se il bene fosse una condizione di normalità rispetto al male. Tutta una catena di non sensi che sono assolutamente quotidiani. Sentiamo il peso del silenzio e dobbiamo per forza parlare ma poi cerchiamo le gabole per non parlare troppo. Quando invece il discorso si fa continuativo perché, sfortunatamente per noi, l'altro ha voglia di parlare e quindi ci risponde "Non tanto bene" oppure "Eh, hai visto che tempo?" ecco che scattano i discorsi futili che affaticano le corde vocali e rubano ossigeno per niente. Il tempo, i giovani d'oggi, oppure (questo più nel caso delle persone anziane) il reciproco elenco delle proprie disgrazie e vince chi c'è l'ha più lungo.
Sarò io in realtà ad avere dei problemi... Faccio una fatica abnorme a parlare del più e del meno perché credo che in fondo la vita sia corta non ci si possa permettere di sprecarla con simili futilità. E fatico anche a chiedere: "Come stai?" o a rispondere. Solitamente, quando capisco che me ne importa realmente dello stato d'animo di una persona le chiedo: “Sei felice?” ed ho notato che questo colpisce molto le persone, non tanto per la diversa formulazione, quanto perché colgono che sono state davvero prese di mira nel profondo e che hanno davanti qualcuno a cui sta a cuore la loro felicità. Ci renderebbe tutti più sereni e meno ansiosi mettere al bando questa forma particolare di ipocrisia, non parlare per forza se non si ha voglia, e non considerare un maleducato l'altro se non si comporta in un certo falso modo.

Quando invece la gente ha una gran voglia di parlare, in questo tripudio di non senso c’è il grande argomento dei pettegolezzi e delle disgrazie altrui. E’ incredibile. Spesso non ci importa nulla di ciò che sente la persona che sta di fronte a noi, mi in compenso sappiamo fin nei minimi dettagli (anche se ciò non significa che sappiamo la verità) ciò che succede agli altri, com’è la loro vita, la loro famiglia e cosa provano quando succede loro qualche cosa di brutto. E più la cosa è triste, più la gente ne parla, elemosina i particolari e se non ne trova piuttosto li inventa, pur di parlarne. Come mai si prova questa morbosa soddisfazione nello spettegolare? Dopo si sta meglio? No, credo proprio che sia un’altra di quelle gioie apparenti di cui parlavo qualche post fa. E’ una consolazione, ma, tornando alla tesi di prima, riscopro che ci sarebbero molte meno ansie se ci si aiutasse invece che stare lì a cianciare. Anche perché chi chiacchera è sicuramente il centro di altre chiacchere, e questo non dà certo una sensazione di tranquillità.
Viviamo 24 ore al giorno di forzature. Non ci è permesso di essere spontanei e noi non lo permettiamo agli altri. Autocontrollarsi, non sgarrare, non sbilanciarsi, guardarsi continuamente dietro le spalle perché chiunque può osservarci e giudicare. E nello stesso tempo essere noi stessi gli occhi dietro le spalle degli altri e giudicare giudicare giudicare. Si giudica ancor prima di formulare un pensiero. E bastano due persone a compiere questo lavoro per far diventare questo giudizio una verità. Che modo di vivere è questo?

Ho passato un’infanzia e una pre-adolescenza sommerse da valanghe di pregiudizi e di chiacchere sulle vicissitudini della mia famiglia. Nessuno ha mai pensato all’amore che, nonostante tutto, con grande forza era presente ma tutti hanno solo giudicato e commiserato, talora con veleno, talora con un viscido buonismo. E al funerale di mia madre la chiesa era stracolma di gente, gente che neanche conoscevamo. Che modo di vivere è questo?
Non sono solita comunicare faccende così intime, ma questa questione mi sta molto a cuore e volevo fosse chiaro fino in fondo.

Sono una persona felice, ed ho incominciato ad esserlo soltanto quando mi sono liberata da tutto questo ed ho cominciato a vivere le cose come sono, senza fronzoli, senza chiacchere, senza falsità. E vi assicuro che tutti questi veli offuscano realmente la vista e ci impediscono di notare dei particolari che ci cambierebbero la vita.

1 commento:

Anonimo ha detto...

il patos arriva
e si comincia
quello che fanno gli altri
quello che faccio io
sono buono o gentile
sincero o stronzo
sono felice?
solo quando vivo d'amore
per il resto l'incredulità passando dalla credulità a una sola verità
non c'è un minuto da perdere
come direbbe l'amico di un amico
in questo discorso
quand'è che si sbor..

juancarlos